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Autore:Redazione

Episodio 9
Nel nord del Vietnam, un monumento ricorda una delle più sanguinose battaglie del Novecento. Proprio qui, nel 1954, iniziò la fine della presenza francese in Indocina.

di Giancarlo D’Anna

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Giancarlo D'Anna
Giancarlo D’Anna nasce a Fano e vive i primi anni della sua vita in una casa vicino all’imboccatura del porto dove navi, barche e pescherecci in partenza e in arrivo stuzzicano la sua curiosità e fantasia. Quella curiosità deve attendere numerosi anni prima di avere delle risposte. Sono tre mesi vissuti tra India, Nepal e Sri Lanka, zaino in spalla, a forgiare Giancarlo come viaggiatore. Tre mesi insufficienti a saziare la voglia di conoscere e scoprire luoghi lontani, religioni, genti e se stesso. Sarà il viaggio successivo, lungo oltre sette mesi, ancora una volta in India, Nepal ma anche in Tibet, Bangladesh, Thailandia per raggiungere poi Hong Kong per poi rientrare in treno in Italia con la Transmanciuriana, a far capire a Giancarlo che quello non era un semplice viaggio ma la sua vita. Così viaggiare da passione è diventato per decenni un lavoro appassionato. Quelle esperienze di viaggio, le sensazioni, le difficoltà, le esperienze, gli incontri vissuti in prima persona, in solitario, sono state fondamentali per poter passare ai viaggiatori che Giancarlo ha accompagnato e accompagna, quello spirito, quella cultura del viaggio indispensabili per apprezzare fino in fondo la più bella esperienza che si possa vivere al mondo: viaggiare.

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«Fino a pochi decenni fa noi eravamo Coloro che Scompaiono, un popolo di cosiddetti selvaggi a rischio di estinzione. Ora siamo rimasti soltanto ventimila. Eppure da qualche anno vedo segni che invitano a sperare, le cose per noi stanno finalmente cambiando in meglio». Così mi dice Hara Yoshiki, artigiano ma soprattutto rappresentante della comunità Ainu di questo villaggio, che si trova sulla seconda isola più grande del Giappone, la più settentrionale, la più spopolata, la più sconosciuta: Hokkaido per i giapponesi, Ezo per gli Ainu.

Già il nome del piccolo centro in cui siamo (Akan-ko Ainu Kotan) fa capire che ci troviamo in un universo culturale differente dal resto del Giappone. Decifriamo dunque questo nome, che è in lingua Ainu: Kotan significa Villaggio; Ainu significa Umani, come chiamano se stessi gli aborigeni abitanti qui da millenni; Ko significa Lago; Akan è la località. Dunque ci troviamo nel Villaggio degli Umani del Lago Akan. È un puntino avvolto dal candido silenzio della neve sulle colline e sui monti circostanti. Il villaggio Akan si affaccia sull’omonimo lago che è totalmente coperto di ghiaccio, un lenzuolo di candore perfetto, interrotto solo dai vivaci colori delle tende dei pescatori, intenti a buttare l’amo in un buco nel ghiaccio.

Ezo/Hokkaido è una terra dove la Natura domina trionfante e gli umani sono soltanto ospiti, cortesemente tollerati dalle volpi, dalle aquile, dai cigni selvatici, dalle gru, dalle foreste che coprono il 60% del territorio, dagli Spiriti dei vulcani e dei fiumi. Quegli Spiriti che abitano e rendono sacra ogni cosa – montagne, laghi, alberi, animali – e che gli Ainu chiamano Kamuy. Ovvio che gli Ainu si siano sempre inchinati davanti al grandioso spettacolo di una natura non addomesticata dall’uomo, ovvio che la loro religione sia un animismo naturalistico. Che per certi aspetti ricorda lo Shintoismo giapponese, una religione della natura dove gli spiriti si chiamano Kami e vivono in ogni cosa.

La civiltà degli Ainu iniziò a fiorire, secondo alcuni storici, nel 12°-13° secolo d.C., ma i loro antenati erano arrivati in Ezo/Hokkaido moltissimo tempo prima, fra il ventimila e il diecimila a.C., durante l’ultima grande glaciazione del nostro pianeta, sfruttando un “ponte” di ghiaccio e terra che allora esisteva fra la penisola della Kamcatka e l’attuale Hokkaido. In Kamcatka e in certi luoghi della Siberia orientale esistono tuttora, del resto, piccoli gruppi etnici per vari aspetti simili agli Ainu. Per molti secoli gli Ainu vissero in un rapporto simbiotico con la natura di Ezo, fino a quando (ma nessuno sa esattamente quando) cominciarono ad arrivare sull’isola i Wajin, termine cinese con cui gli Ainu indicavano i “colonizzatori”, cioè i giapponesi. Questi provenivano da un’altra grande isola del Giappone, lo Honshu, e cominciarono lentamente ma inesorabilmente a impadronirsi del territorio, finché sconfissero gli Ainu in battaglia nel 1669 e quello fu l’inizio della fine per il fiero popolo di cacciatori-pescatori-raccoglitori della terra di Ezo.

Quando poi iniziò, alla fine dell’800, il processo di modernizzazione del Giappone e della sua apertura al mondo, gli Ainu, così legati a uno stile di vita tradizionale, vennero considerati barbari, selvaggi, un popolo inferiore con una cultura decadente e destinata ad estinguersi. E scattò perfino il divieto di usare la lingua Ainu: i bambini Ainu a scuola potevano esprimersi e studiare soltanto in giapponese.

In realtà la cultura Ainu era (ed è) ricca di miti e riti, testi poetici, danze, musiche, artigianato ligneo e tessile. Però…nulla di ciò era scritto. Perché la lingua Ainu non ha una propria scrittura, e la trasmissione della cultura era soltanto orale. Questo ne determinò la fragilità, la vulnerabilità. Così dopo la Seconda Guerra Mondiale il Giappone in pieno boom economico non sapeva che farsene degli Ainu e delle loro tradizioni “strane” e inadatte alla modernità, come il culto dell’orso, animale sacro per eccellenza, al centro di un rito affascinante. Perciò gli Ainu furono emarginati. E disprezzati. E cominciarono a dimenticare la lingua e le tradizioni.

Fino a quando un uomo ricordò loro chi erano. Un antropologo, fotografo, esploratore, scrittore, che aveva vissuto fra gli Ainu per tre anni, dal 1938 al 1941, e che li aveva studiati e fotografati, aveva disegnato i loro abiti e i loro oggetti quotidiani, e aveva pubblicato articoli e libri sulla civiltà Ainu, salvandola da un lento e inesorabile oblìo. E in Hokkaido era tornato dopo la guerra mondiale, per approfondire e divulgare le proprie ricerche. «Noi aprimmo quei libri, ritrovammo oggetti e storie e riti che avevamo dimenticato, e così cominciammo a studiare la nostra stessa cultura, la nostra stessa lingua», mi spiega Hara Yoshiki, mentre mi porta verso un piccolo edificio nel Villaggio Akan. Sopra l’ingresso c’è scritto IKOR, che in lingua Ainu significa Tesoro. «Questo edificio è il nostro primo teatro: lì danziamo, suoniamo, cantiamo, trasmettiano il Tesoro della nostra storia. Il teatro è stato finanziato dallo Stato giapponese, che negli ultimi vent’anni ha del tutto cambiato politica verso di noi», sorride Hara Yoshiki. «Ma la nostra gratitudine eterna va a quello studioso che ha salvato la memoria della nostra cultura mentre stava scomparendo. Quello studioso veniva dall’Italia, proprio come te. Lo sapevi?» conclude.

Ora è il mio turno sorridere. Fosco Sensei, lo chiamavamo. Sensei in giapponese significa Maestro e lui lo era. Il suo nome era Fosco Maraini, un uomo straordinario che ha fatto la storia delle relazioni fra l’Italia e l’Asia nel Ventesimo Secolo accanto a un uomo non meno straordinario di lui, Giuseppe Tucci. Due studiosi italiani di cui tutti dovremmo andare fieri. Ma la lunga e affascinante storia di Fosco Sensei ve la racconterò quando saremo insieme in Giappone, cari viaggiatori. Nell’attesa di quel momento, vi saluto al modo degli Ainu: «Irankarapte», che in lingua Ainu significa «Permettimi di toccare il tuo cuore» ma anche «Benvenuto».
Possa venire presto il giorno in cui la terra di Ezo toccherà il vostro cuore.


 

Ainu

 


Guarda la "Cartolina" di Kel 12 dedicata all'Hokkaido presentata da Marco Restelli

Autore:Redazione

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amanda ronzoni
Amanda Ronzoni è nata in Brianza nel 1972 e cresciuta in Liguria. Ha studiato a Cantù, Seregno e Venezia, a Kyoto e a Pechino. Ma cerca di imparare cose nuove anche osservando il prato davanti casa. Diploma di liceo classico, laurea in lingue orientali, esperienza nel mondo della comunicazione, amante della fotografia che, nel 2006, diventa una professione. Dal 2011 è iscritta all’Ordine dei Giornalisti Italiani e collabora continuativamente con la redazione di numerose testate italiane e straniere (NationalGeographic.it, Focus Wild, Road Trip Magazine) realizzando reportage dedicati a natura, ambiente e antropologia. Per anni ha collaborato con l’associazione di divulgazione scientifica Vulcano Esplorazioni realizzando mostre su tematiche riguardanti geologia e scienze della terra e in particolare l’Islanda. Ha abitato in posti diversi e viaggiato tanto, ma mai abbastanza. Argentina, Bolivia, Svalbard, ma anche Giappone, Cina e sud-est asiatico sono luoghi dell’anima. Ma per l’Islanda ha sviluppato una vera e propria dipendenza e una voglia continua di ritornarci; per spegnere questa sete ha deciso di farla diventare una meta di lavoro con l’accompagnamento di piccoli gruppi di fotografi o amanti della natura incontaminata e selvaggia. Iceland Specialist riconosciuto dall’Ente del Turismo islandese. 

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Marco Restelli
L’innamoramento di Marco Restelli per “gli Orienti” scatta già al liceo e si approfondisce con una laurea in Lingua e Letteratura Hindi all’Università Ca’ Foscari di Venezia e poi con la partecipazione a una missione archeologica dell’IsMEO in Nepal. Diventato giornalista professionista, Marco Restelli lavora per numerosi periodici (fino a diventare vicedirettore di GEO) viaggiando in tutta l’Asia per realizzare reportage; considera come proprio maestro Tiziano Terzani. Nel frattempo collabora con varie Università pubblicando diversi saggi, soprattutto sulla storia religiosa e politica dell’India . Ha praticato meditazione in monasteri buddhisti in Birmania e in Giappone. Oggi Marco è professore di Cultura Indiana al Dipartimento di Scienze della Mediazione Linguistica e Studi Interculturali dell’Università degli Studi di Milano, continua a fare il giornalista ed è il blogger di MilleOrienti (www.milleorienti.com), il blog italiano più letto sull’Asia. Da parecchi anni fa la guida «perché» – dice – «mi piace condividere con gli altri la passione per i popoli dei mille Orienti».

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