«Fino a pochi decenni fa noi eravamo Coloro che Scompaiono, un popolo di cosiddetti selvaggi a rischio di estinzione. Ora siamo rimasti soltanto ventimila. Eppure da qualche anno vedo segni che invitano a sperare, le cose per noi stanno finalmente cambiando in meglio». Così mi dice Hara Yoshiki, artigiano ma soprattutto rappresentante della comunità Ainu di questo villaggio, che si trova sulla seconda isola più grande del Giappone, la più settentrionale, la più spopolata, la più sconosciuta: Hokkaido per i giapponesi, Ezo per gli Ainu.
Già il nome del piccolo centro in cui siamo (Akan-ko Ainu Kotan) fa capire che ci troviamo in un universo culturale differente dal resto del Giappone. Decifriamo dunque questo nome, che è in lingua Ainu: Kotan significa Villaggio; Ainu significa Umani, come chiamano se stessi gli aborigeni abitanti qui da millenni; Ko significa Lago; Akan è la località. Dunque ci troviamo nel Villaggio degli Umani del Lago Akan. È un puntino avvolto dal candido silenzio della neve sulle colline e sui monti circostanti. Il villaggio Akan si affaccia sull’omonimo lago che è totalmente coperto di ghiaccio, un lenzuolo di candore perfetto, interrotto solo dai vivaci colori delle tende dei pescatori, intenti a buttare l’amo in un buco nel ghiaccio.
Ezo/Hokkaido è una terra dove la Natura domina trionfante e gli umani sono soltanto ospiti, cortesemente tollerati dalle volpi, dalle aquile, dai cigni selvatici, dalle gru, dalle foreste che coprono il 60% del territorio, dagli Spiriti dei vulcani e dei fiumi. Quegli Spiriti che abitano e rendono sacra ogni cosa – montagne, laghi, alberi, animali – e che gli Ainu chiamano Kamuy. Ovvio che gli Ainu si siano sempre inchinati davanti al grandioso spettacolo di una natura non addomesticata dall’uomo, ovvio che la loro religione sia un animismo naturalistico. Che per certi aspetti ricorda lo Shintoismo giapponese, una religione della natura dove gli spiriti si chiamano Kami e vivono in ogni cosa.
La civiltà degli Ainu iniziò a fiorire, secondo alcuni storici, nel 12°-13° secolo d.C., ma i loro antenati erano arrivati in Ezo/Hokkaido moltissimo tempo prima, fra il ventimila e il diecimila a.C., durante l’ultima grande glaciazione del nostro pianeta, sfruttando un “ponte” di ghiaccio e terra che allora esisteva fra la penisola della Kamcatka e l’attuale Hokkaido. In Kamcatka e in certi luoghi della Siberia orientale esistono tuttora, del resto, piccoli gruppi etnici per vari aspetti simili agli Ainu. Per molti secoli gli Ainu vissero in un rapporto simbiotico con la natura di Ezo, fino a quando (ma nessuno sa esattamente quando) cominciarono ad arrivare sull’isola i Wajin, termine cinese con cui gli Ainu indicavano i “colonizzatori”, cioè i giapponesi. Questi provenivano da un’altra grande isola del Giappone, lo Honshu, e cominciarono lentamente ma inesorabilmente a impadronirsi del territorio, finché sconfissero gli Ainu in battaglia nel 1669 e quello fu l’inizio della fine per il fiero popolo di cacciatori-pescatori-raccoglitori della terra di Ezo.
Quando poi iniziò, alla fine dell’800, il processo di modernizzazione del Giappone e della sua apertura al mondo, gli Ainu, così legati a uno stile di vita tradizionale, vennero considerati barbari, selvaggi, un popolo inferiore con una cultura decadente e destinata ad estinguersi. E scattò perfino il divieto di usare la lingua Ainu: i bambini Ainu a scuola potevano esprimersi e studiare soltanto in giapponese.
In realtà la cultura Ainu era (ed è) ricca di miti e riti, testi poetici, danze, musiche, artigianato ligneo e tessile. Però…nulla di ciò era scritto. Perché la lingua Ainu non ha una propria scrittura, e la trasmissione della cultura era soltanto orale. Questo ne determinò la fragilità, la vulnerabilità. Così dopo la Seconda Guerra Mondiale il Giappone in pieno boom economico non sapeva che farsene degli Ainu e delle loro tradizioni “strane” e inadatte alla modernità, come il culto dell’orso, animale sacro per eccellenza, al centro di un rito affascinante. Perciò gli Ainu furono emarginati. E disprezzati. E cominciarono a dimenticare la lingua e le tradizioni.
Fino a quando un uomo ricordò loro chi erano. Un antropologo, fotografo, esploratore, scrittore, che aveva vissuto fra gli Ainu per tre anni, dal 1938 al 1941, e che li aveva studiati e fotografati, aveva disegnato i loro abiti e i loro oggetti quotidiani, e aveva pubblicato articoli e libri sulla civiltà Ainu, salvandola da un lento e inesorabile oblìo. E in Hokkaido era tornato dopo la guerra mondiale, per approfondire e divulgare le proprie ricerche. «Noi aprimmo quei libri, ritrovammo oggetti e storie e riti che avevamo dimenticato, e così cominciammo a studiare la nostra stessa cultura, la nostra stessa lingua», mi spiega Hara Yoshiki, mentre mi porta verso un piccolo edificio nel Villaggio Akan. Sopra l’ingresso c’è scritto IKOR, che in lingua Ainu significa Tesoro. «Questo edificio è il nostro primo teatro: lì danziamo, suoniamo, cantiamo, trasmettiano il Tesoro della nostra storia. Il teatro è stato finanziato dallo Stato giapponese, che negli ultimi vent’anni ha del tutto cambiato politica verso di noi», sorride Hara Yoshiki. «Ma la nostra gratitudine eterna va a quello studioso che ha salvato la memoria della nostra cultura mentre stava scomparendo. Quello studioso veniva dall’Italia, proprio come te. Lo sapevi?» conclude.
Ora è il mio turno sorridere. Fosco Sensei, lo chiamavamo. Sensei in giapponese significa Maestro e lui lo era. Il suo nome era Fosco Maraini, un uomo straordinario che ha fatto la storia delle relazioni fra l’Italia e l’Asia nel Ventesimo Secolo accanto a un uomo non meno straordinario di lui, Giuseppe Tucci. Due studiosi italiani di cui tutti dovremmo andare fieri. Ma la lunga e affascinante storia di Fosco Sensei ve la racconterò quando saremo insieme in Giappone, cari viaggiatori. Nell’attesa di quel momento, vi saluto al modo degli Ainu: «Irankarapte», che in lingua Ainu significa «Permettimi di toccare il tuo cuore» ma anche «Benvenuto».
Possa venire presto il giorno in cui la terra di Ezo toccherà il vostro cuore.
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